Intestazione



Le mie citazioni preferite

C'è gente che possiede una biblioteca come un eunuco un harem (Victor Hugo)
Il mediocre imita, il genio ruba (Oscar Wilde)
Amicus Plato, sed magis amica veritas – Mi è amico Platone, ma ancora più amica la verità (Aristotele)
Se devi parlare, fa' che le tue parole siano migliori del silenzio (Antico detto cinese)
Contro la stupidità neppure gli dei possono nulla (Friedrich Schiller)
Disapprovo le tue opinioni, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto di esprimerle (Voltaire)
Lo stolto ha solo certezze; il sapiente non ha che dubbi (Socrate)
Sognatore è un uomo con i piedi fortemente appoggiati sulle nuvole (Ennio Flaiano)

giovedì 30 agosto 2012

Meteore III (Curiosità musicali XVI)

Questa volta ce l'ho messa davvero tutta, nello scovare ricordi introvabili...

Beppe Cardile, chi era costui? potremmo dire, parafrasando il Don Abbondio manzoniano.
Quando lo ascoltai in radio, all'inizio degli anni '60, mi venne spontaneo considerarlo, assieme a Fabrizio De André e a Luigi Tenco, anch'essi esordienti in quel periodo, l'erede di Sergio Endrigo, all'epoca il principale caposcuola, con Gino Paoli e Umberto Bindi, della canzone d'autore italiana.
Invece De André e Tenco sono diventati famosissimi e sono ricordati ancora oggi, di Cardile si persero le tracce dopo pochi anni.
Curiosità: dai miei ricordi ero convintissimo che Cardile fosse genovese, membro della famosa scuola dei cantautori alla quale – Endrigo a parte – appartengono gli altri sopra nominati; nel documentarmi per scrivere questo post apprendo invece che è fiorentino di nascita e livornese (e anche un po' milanese) d'adozione. Strani scherzi della memoria...
Una cover della sua più famosa interpretazione, L'amore è partito, finalista al Festival di Sanremo nel 1965, è la prima incisione di Franco Battiato (che addirittura ancora si firmava Francesco Battiato); lo testimonia uno dei commenti di questo video, lasciato dallo stesso Beppe Cardile.
Nel video sottostante una delle prime incisioni di successo di Cardile, Per piacere del 1963. La somiglianza con Endrigo, Tenco e il primo De André vi appare evidentissima.

 

Richard Anthony, nome d'arte di Richard Btesh, cantante francese di origine egiziana, ebbe grande successo anche in Italia, soprattutto con J'intends siffler le train (incisa anche in italiano col titolo E il treno va), struggente canzone sentimentale su un definitivo addio alla stazione, che divenne un vero e proprio tormentone radiofonico nel 1962/63, cover di 500 miles della folk singer statunitense Hedy West. Forse superfluo ricordare che Franco Battiato, instancabile ricercatore delle più belle canzoni d'epoca, reincise anche questa: QUI una sua versione in duetto con Giuni Russo. Nel video seguente, invece, la versione originale di Anthony del 1962.



Marisa Sannia, scomparsa nel 2008 a sessantun anni di età, è stata giocatrice di pallacanestro di buon livello, cantante di musica leggera, modella fotografica e indossatrice, attrice teatrale e televisiva e sensibile cantautrice in lingua sarda.
Notata nei primi anni '60 da Sergio Endrigo, col quale mantenne a lungo rapporti di collaborazione, ebbe un breve periodo di notorietà culminato col secondo posto conquistato a Sanremo nel 1968 con la canzone Casa bianca.
Il brano presentato nel video sottostante, e di cui fu la prima interprete, divenne invece famosissimo per le versioni di Lucio Battisti nel 1976 e di Vasco Rossi nel 2007.


Non credo esista nessuno, tra i ragazzi della mia età o appena più grandicelli, che non si sia commosso e non abbia riconosciuta la propria solitudine adolescenziale nella canzone Tous le garçons et le filles, popolarissima in tutta Europa (da noi ne circolò anche una versione italiana dal titolo Quelli della mia età) nei primi anni '60. La voce esile, la figura slanciata e i grandi occhi scuri dell'allora diciottenne Françoise Hardy ne fecero ovunque una bandiera generazionale.
Nel video la versione originale francese; QUI, invece, la traduzione del testo.


 Buon ascolto dal vostro
Cosimo Piovasco di Rondò

martedì 28 agosto 2012

A proposito della lingua italiana (VI)

Visto il gradimento della precedente puntata sui modi di dire, presento qualche altra curiosità etimologica alla spicciolata.

Canicola, solleone: termini di stagione praticamente sinonimi, usati anche genericamente nel senso di caldo intenso e soffocante. L'origine di entrambi è tuttavia astronomica, e praticamente coincidente in termini cronologici.
Canicola deriva dal nome latino della stella Sirio (Alpha Canis Majoris), la principale della costellazione del Cane Maggiore e la più brillante del cielo notturno, che i romani chiamavano Stella Canicula; il suo sorgere eliaco (cioè in contemporanea al sole) che si verificava un tempo verso il 20 Luglio (oggi avviene all'inizio di Agosto a causa della riforma gregoriana del calendario), era anticamente associato al culmine della stagione calda.
Solleone è invece riferito alla presenza del sole nella costellazione zodiacale del Leone, che avviene nello stesso periodo, all'incirca tra il 20 Luglio e il 20 Agosto. I due termini sono quindi passati nell'uso comune per indicare il periodo più caldo dell'anno.

Bastardo:  è attestato nella lingua italiana col duplice significato di persona nata da unione illegittima e cane non di razza pura; essendo considerato termine volgare, in questa seconda accezione si tende oggi a sostituirlo con meticcio, voce di origine spagnola che indicava in origine gli incroci tra i conquistadores europei e le popolazioni native del sudamerica.
Negli Stati Uniti è considerato un insulto sanguinoso molto più che in Europa; probabilmente proprio perché quella nordamericana, originata da continui incroci tra europei di varia nazionalità, pellerossa e neri africani, è verosimilmente la popolazione più meticcia del mondo.
L'origine del termine è controversa, i linguisti hanno tirato in ballo le più disparate lingue per spiegarla; dev'essere comunque voce antica, visto che in italiano, spagnolo, inglese, francese e tedesco ha lo stesso suono.
Personalmente sarei favorevole a farla derivare dal basto, la rozza sella che regge il carico degli animali da soma, in particolare del mulo, da sempre emblema di incrocio tra individui diversi, e visto quasi come essere contro natura. Non è un caso che da mulo derivi anche mulatto, termine che indica chi nasce da un uomo bianco e una donna nera, o viceversa.
Bastardo ha assunto nel tempo svariati significati, anche tecnici, riconducibili comunque all'originale: nel medio evo si chiamava spada bastarda un'arma intermedia tra la spada d'armi, leggera e da usare con una sola mano (l'arma tipica dei cavalieri), e il pesante spadone a due mani usato prevalentemente dalla fanteria; in meccanica la lima bastarda ha anch'esse caratteristiche intermedie tra le lime da sgrossatura e quelle da finitura.

Fellone: voce ormai in disuso, che si sente solo in film o romanzi ambientati in epoche antiche; accrescitivo – e quindi peggiorativo – di fello, ancor meno usato (ma cfr. Inferno, XXI, 72: ma el gridò: nessun di voi sia fello!), aveva originariamente il preciso significato di traditore nei confronti del signore al quale deve fedeltà; passò poi ad indicare ogni tipo di persona infida e traditrice, che colpisce di nascosto con l'inganno. "Ah, vil fellone!" è, nei romanzi d'avventura, il tipico grido di chi sia assalito a sorpresa da qualcuno che credeva amico.
Anche in questo caso le interpretazioni sono molteplici, ma a mio parere esiste sicuramente una radice comune con l'inglese to fell e col tedesco fallen (cadere o far cadere), come coi termini italiani falso e fallire.

Marrano: anche questa è voce disusata, se non in senso ironico o fintamente aulico. Benché sia spesso intesa come sinonimo di fellone nel senso di traditore ha tuttavia un'origine tutt'affatto diversa e, una volta tanto, accertata univocamente.
Durante e dopo la reconquista, cioè l'occupazione della Penisola Iberica da parte dei re cristiani che scacciarono i regnanti arabi che vi erano installati da secoli, quella regione era abitata anche da una consistente comunità ebraica, i cosiddetti ebrei sefarditi (da Sefarad, nome che essi diedero alla Spagna); nel XIV/XV secolo, a riconquista praticamente ultimata, gli ebrei furono obbligati dai governanti di Spagna e Portogallo a convertirsi al cristianesimo, e vennero chiamati conversos, cristianos nuevos o anche marranos (probabilmente dall'arabo mu-haram, cosa vietata). Inizialmente il termine non aveva quindi valenza denigratoria, ma cominciò ad assumerla a seguito delle voci che volevano queste conversioni effettuate per pura convenienza, mentre segretamente gli ebrei avrebbero continuato a professare la loro religione. L'odio razziale portò a gravi fatti di sangue tra cristiani e marrani e all'espulsione – o alla fuga – della maggior parte degli ebrei iberici, che si dispersero in tutta l'Europa e nel nord Africa, e fece sì che il termine marrano diventasse sinonimo di persona infida e traditrice, e con tale significato è passato anche nella nostra lingua.

Un saluto dal vostro
Cosimo Piovasco di Rondò

domenica 26 agosto 2012

Cineforum – Piccoli e grandi film d'ogni tempo (V)

Angoscia (Gaslight, USA, 1944, b/n, 114 min)

Regia: George Cukor

Interpreti: Charles Boyer, Ingrid Bergman, Joseph Cotten, Dame May Whitty, Angela Lansbury

Soggetto: Patrick Hamilton

Sceneggiatura: John Van Druten, Walter Reisch, John L. Balderston

Fotografia: Joseph Ruttenberg

Genere: thriller

Musiche: Bronislau Caper




La trama: La giovane Paula Asquith (Bergman), ossessionata dal ricordo dell’omicidio della zia Alice, una famosa cantante lirica, al quale aveva praticamente assistito, sposa Gregory Anton (Boyer) che la convince a tornare a vivere nella londinese casa del delitto, per meglio esorcizzare le sue paure. Ma le cose, invece di migliorare, peggiorano: alcuni quadri di casa scompaiono dalle pareti, Paula smarrisce un gioiello, sente dei passi in soffitta, vede le luci a gas della casa abbassarsi senza alcuna ragione (da cui il titolo originale, luce a gas) e si sente inesorabilmente trascinata sull’orlo della pazzia, mentre nessuno le viene in aiuto, né il marito, che sembra anzi accusarla di squilibrio mentale, né la giovane domestica Nancy (Lansbury), che mostra apertamente di dispezzare la padrona.
La tesi della follia non convince però Brian Cameron (Cotten), affermato poliziotto di Scotland Yard, che indagherà caparbiamente fino a risolvere il mistero.

Il commento: Ci voleva George Cukor, il regista delle donne, per tirar fuori da Ingrid Bergman questo maestoso ritratto di una donna fragile, indifesa e mentalmente disturbata, che le valse con pieno merito il primo dei suoi premi Oscar da protagonista; neppure le sue intense interpretazioni nei gialli di Hitchcock (Io ti salverò, Notorius, l’amante perduta e Il peccato di Lady Considine) eguagliano questa Paula dolente e attonita.
Ma non è solo la grande interpretazione della Bergman a far annoverare questo film tra i classici del giallo d’ogni tempo, ma anche la suggestiva atmosfera londinese, tutta riprodotta in studio, anche nelle rare sequenze in esterno (Cedric Gibbons vinse l’Oscar per la miglior scenografia e Philip Ruttenberg ottenne una nomination come miglior direttore della fotografia), la regia attenta e impeccabile e una sceneggiatura drammatica e coinvolgente (anch’essa nominata per l’Oscar).
Charles Boyer (a sua volta nominato per l’Oscar) è un cattivo da antologia; Joseph Cotten è come sempre un attore dalle non comuni doti espressive e del tutto adeguato alla parte; la giovanissima Angela Lansbury, futura signora in giallo, è deliziosa nei panni di una servetta acida e maliziosa (e pure lei ricevette una nomination all’Oscar da non protagonista).

Curiosità: Dal titolo originale dell’opera è nato il termine inglese gaslighting, usato comunemente – anche se non ufficialmente – in psicologia, col significato di “violenza psicologica esercitata su una persona allo scopo di farla dubitare della propria percezione della realtà”; ciò che, per l’appunto, fa Gregory Anton nel film con la moglie Paula.
Come in numerosi altri casi (famoso quello di Alan Ladd, di statura bassissima e costantemente costretto a ricorrere a questi espedienti), anche Charles Boyer era più basso di statura di Ingrid Bergman, e girò le scene in cui si trovavano faccia a faccia stando sopra una scatola di legno.
L’esordiente Angela Lansbury compì diciotto anni nel corso delle riprese, e la troupe le organizzò una festicciola augurale sul set.
Per rendere meglio il carattere della protagonista (esemplare caso di professionalità attoriale!) Ingrid Bergman si recò in un istituto di malattie mentali per studiare i gesti e le espressioni dei pazienti.

Un saluto dal vostro
Cosimo Piovasco di Rondò

sabato 25 agosto 2012

Note tecniche di HTML

Sono un po' indeciso se pubblicare queste note in un post fantasma da cancellare quando non servirà più o se lasciarlo come post normale. Per ora abilito i commenti: deciderò in base alle vostre reazioni.
Noto un diffuso disagio da parte di molti utenti nell'utilizzo del form dei commenti di Blogspot (e su Wordpress è praticamente la stessa cosa, anche se ho il sospetto che qualcosa in più – ad esempio inserire foto – si possa fare, ma non ho approfondito), in particolare sulla formattazione del testo e sull'inserimento dei link; me ne stupisco perché quasi tutti sono ex splinderiani, e su Splinder abbiamo avuto tutti a lungo lo stesso problema; e com'è che là nessuno si lamentava?
In ogni caso spero di fare cosa utile condividendo le (poche) cose che so su questo argomento:
  • il form dei commenti non è né più né meno che una pagina HTML; quindi accetta unicamente testo e comandi esplitici (i famosi tag); non esiste un editor come quello che si vede nella pagina di compilazione dei post (iobloggo invece ce l'ha, ad esempio, come l'aveva l'ultima versione di Splinder);
  • il formato tipico dei tag è:
    <tag>corpo del tag</tag>; il primo dei comandi apre il tag, il secondo (quello con la barra) lo chiude;
  • i tag accettati da Blogspot nei commenti sono (a quanto ho capito) solamente tre: grassetto, corsivo e link; quindi toglietevi dalla testa di poter inserire sfondi, immagini, audio o video perché non li accetta.
In dettaglio, come funzionano i tag?
grassetto: si scrive:
voglio scrivere queste <b>due parole</b> in grassetto
e si ottiene:
voglio scrivere queste due parole in grassetto
corsivo: si scrive:
voglio scrivere queste <i>due parole</i> in corsivo
e si ottiene:
voglio scrivere queste due parole in corsivo
link: questa è un filo più complicata; la sintassi del tag è:
<a href="indirizzo del link">corpo del link</a>
dove indirizzo del link = URL della pagina dove deve portare il link (basta copiarlo dalla barra degli indirizzi del browser)
e corpo del link = la/le parola/e su cui si deve cliccare per andare all'indirizzo desiderato.
Esempio: se voglio un link che porti alla home page del mio vecchio blog (non uso il nuovo perché ci siete già, mentre state leggendo) scriverò:
voglio che cliccando <a href="http://amezzanotteinpunto.iobloggo.com/">QUI</a> si vada al mio vecchio blog
e otterrò:
voglio che cliccando QUI si vada al mio vecchio blog
(provate a farlo...)
Nota conclusiva: una delle cose che mi piacciono di Blogspot è che (a differenza di Splinder e di Wordpress) il form dei commenti ha un'anteprima ed è controllato: se tentate di pubblicare un commento con un tag non chiuso o inserito scorrettamente il sistema vi blocca e produce un messaggio di errore; quindi verificate sempre l'anteprima prima di inviare un commento.
Su Wordpress bisogna stare più attenti, non è controllato e se si digita in modo non corretto il commento viene pubblicato lo stesso, ma può diventare un pastrugno inguardabile.
Con la speranza di aver fatto cosa utile per qualcuno, e scusandomi invece con quelli che queste cose le sanno meglio di me, e che quindi si sono annoiati a leggermi,
un saluto dal vostro
Cosimo Piovasco di Rondò

giovedì 23 agosto 2012

Modi di dire (V)

(Nota a margine: anche questo post riprende una rubrica curata parecchio tempo fa – le precedenti puntate QUI, QUI, QUI e QUI – e abbandonata per esaurimento degli argomenti. Alcune recenti discussioni su blog amici me ne hanno suggeriti altri, quindi vado avanti).
 
Nascere con la camicia: vale essere una persona fortunata, ma l'origine del detto è controversa.
C'è chi lo fa derivare dal corredino del neonato che solo le famiglie abbienti, in passato, si potevano permettere, mentre i bimbi del popolo venivano avvolti in rozze fasce; starebbe perciò per nascere con la camicia pronta per essere indossata, simbolo, quindi, di agiatezza.
Un'altra ipotesi ugualmente convincente (e secondo me più suggestiva) fa riferimento a quei rari parti nei quali il neonato viene alla luce avvolto dal sacco amniotico, che erano considerati nell'antichità, proprio per il fatto di essere rari, di buon auspicio per il piccolo.
 
Stato interessante: questo detto, riferito alle donne in attesa di un figlio, è a mio avviso davvero difficile da interpretare.
Che si tratti di un eufemismio è addirittura ovvio: nel bigotto linguaggio del passato termini come gravida e pregna (tecnicamente ineccepibili) erano considerati volgari e sconvenienti, tanto da essere del tutto abbandonati in riferimento agli esseri umani e riservati agli animali (una vacca gravida, una pecora gravida si dice ancora oggi); anche incinta (non cinta, cioè impossibilitata ad usare la cintura per l'ingrossamento del ventre secondo alcuni; secondo altri dal participio passato del verbo latino incingere, cingere intorno) è già un eufemismo, ma anch'esso era considerato troppo diretto; ed ecco quindi nascere altre espressioni per riferirsi ai periodi connessi al parto: dolce attesa, stato di grazia, lieto evento, tutti dal significato trasparente... e poi quello strano stato interessante...
Tutti i tentativi d'interpretazione che ho trovati in giro – dall'interesse che una donna prova per se stessa in un momento particolare, all'essere più interessanti agli occhi degli uomini di fronte al mistero della maternità – mi sembrano campati in aria. In ultima analisi il più convincente, se pure arzigogolato, mi appare quello dato dall'Accademia della Crusca, che lo considera un francesismo, forgiato per calco linguistico sul francese intéressant, che contiene – o conteneva nel francese antico –  anche l'accezione importante. Si tratterebbe quindi di uno stato importante nella vita di una donna.
 
Saltar di palo in frasca: lo si dice di chi, nel corso di una conversazione, cambi d'improvviso argomento senza un'apparente giustificazione. L'interpretazione più diffusa fa riferimento al palo come simbolo d'insegna nobiliare, e alla frasca come insegna d'osteria: significherebbe dunque passare ad argomenti tra loro diversissimi.
La trovo sinceramente argomentazione eccessivamente ricercata e artificiosa: preferisco invece una visione molto più bassa e contadinesca del termine: nei campi si trovano sempre affiancati i pali (della vigna) e le frasche (degli alberi attorno o della vigna stessa), e gli uccelletti svolazzano incessantemente posandosi ora sugli uni ora sulle altre, dando l'apparenza, ai nostri occhi umani, di non volersi mai decidere su quale appoggio scegliere definitivamente.
 
Fare la corte – fare il filo: più classico il primo, più moderno il secondo, sono comunque sinonimi nel significato di seguire assiduamente qualcuno/a con intenti amorosi.
Nell'origine però fare la corte non aveva significato amoroso: si riferiva ai cortigiani, coloro cioè che facevano parte della corte del signore di turno e che lo seguivano assiduamente e lo adulavano per ingraziarsi i suoi favori; passò poi nell'uso comune riferito ad un simile tipo di comportamento nei confronti di una persona dell'altro sesso, a fini non più di interesse ma bensì amorosi.
Di gran lunga più complicato fare il filo, diffuso soprattutto nel linguaggio giovanile della seconda metà del secolo scorso. Le interpretazioni sono molteplici e tutte di un certo interesse: la più immediata paragona il corteggiatore che tenta di adescare la persona amata al ragno che fa il filo per tessere la tela dove intrappolerà la preda; suggestiva una storia (leggenda?) su un gruppo di abili ballerini bolognesi di inizio '900 che filavano in continuazione tra le balere dei vari quartieri in cerca di ragazze da corteggiare, e che furono chiamati filuzzianiFare il filo deriverebbe da loro.
Personalmente azzarderei anche un'etimologia più colta, notando che, mentre fare la corte, corteggiare, corteggiamento  e  corteggiatore sono tutti semanticamente equivalenti,  fare il filo, filare e filarino non lo sono; in particolare filare e filarino rappresentano un passo avanti rispetto a chi fa il filo, riferendosi a persone che hanno già un rapporto amoroso in atto (in genere lo si dice di coppiette molto giovani); sicché potrebbe esserci un richiamo al greco philìa, amore, presente in molti termini italiani come filosofia, filantropia, filatelia... e fare il filo potrebbe anche avere una derivazione inversa, cioè aspirare a "filare" con qualcuno/a. Un po' fantasiosa, ma l'idea mi piace...

Un saluto dal vostro
Cosimo Piovasco di Rondò

martedì 21 agosto 2012

Intervallo (Revival XXXV)

Ricorrono oggi sette anni dalla morte di Robert Arthur Moog, ingegnere statunitense considerato l'inventore (o in ogni caso il perfezionatore) del sintetizzatore musicale a tastiera che da lui prese il nome.
Sulla base di questa ricorrenza, avevo intenzione di fare un post – piuttosto ambizioso – sulla storia della musica e della strumentazione elettromeccanica/elettronica, dall'organo Hammond ai campionatori al Theremin al Mellotron... fino al Moog, per l'appunto.
Poi non me la sono sentita: siamo reduci da due post davvero impegnativi (per me e per i miei ospiti), avrei mandati tutti in apnea in quella ridda di termini tecnici e in quella selva di link che avevo in mente; e in più avevo poco tempo; e poi fa un caldo... ma lasciar passare una ricorrenza interessante mi spiaceva.
E allora mi limito a regalarvi un po' di musica (ovviamente sul tema): un intervallo leggero e sorridente da ascoltare magari mentre si gira su altre pagine in rete.

Primo video: una rivisitazione del classico Amazing grace (chi voglia saperne di più su questa antichissima canzone legga QUI) incisa nel 1972 da Federico Monti Arduini – alias Il guardiano del faro – col titolo Il gabbiano infelice. Il brano che più d'ogni altro ha contribuito a far conoscere il moog in Italia.



E due: l'indimenticabile Impressioni di settembre della Premiata Forneria Marconi (un'interessante cover di Franco Battiato è stata recentemente citata sul blog di Linda).



Per finire: un altro leggendario assolo di moog, in The final Countdown degli svedesi Europe.



Ce ne sarebbero ancora, ma appesantirei troppo la pagina... e allora vi lascio un altro paio di link, per chi ne avesse ancora voglia (e me ne aspetto altri dai commenti, sono sincero!):
Emerson Lake & Palmer in Quadri di un'esposizione di Modest Musorgskij
Oxygene IV di Jean Michel Jarre

Buon ascolto dal vostro
Cosimo Piovasco di Rondò

domenica 19 agosto 2012

Interviste (2) – A me stesso

Già due o tre commentatrici del post precedente (o nei loro commenti, o sui loro blog o altrove) mi hanno chiesto di intervenire e di partecipare al gioco in prima persona.
Lo faccio in un post (privilegi del titolare di un blog!) anziché in un commento; chi voglia continuare il gioco può commentare indifferentemente nel post precedente (per maggiore uniformità) o in questo (per maggiore snellezza: la lista dei commenti si sta allungando all'inverosimile). Insomma scegliete voi.
Poiché nessuno mi ha poste domande diverse risponderò alle mie; troverete – anche per rispetto alla brevità – dei link a miei post precedenti, il che mi pare spontaneo, visto che, come ha giustamente notato la povna in un suo commento, tali domande se l'è poste praticamente ogni blogger che si rispetti, e in qualche modo ha pure risposto nel corso della sua avventura blogghistica; scopo di questo gioco è, per l'appunto, accorpare tali risposte e confrontarle.
E dunque, si vada a cominciare...

  1. perché un blog? quali sono state le tue motivazioni nell'affacciarti per la prima volta in blogosfera? 
    R: dire "la disperazione" sarebbe eccessivo, "la noia" troppo poco. In ogni caso stavo male (anche e soprattutto psicologicamente) in quel periodo; un'amica della vita reale, già blogger da tempo su Splinder, tentava di convincermi ad aprire a mia volta un blog, ottenendone sempre netti rifiuti: ero diffidente nei confronti della rete, la consideravo luogo da adolescenti brufolosi e arrapati e da casalinghe inquiete (proprio così le dissi!); infine, in una sera particolarmente cupa, mi decisi a cliccare su quel crea il tuo blog gratis che occhieggiava in fondo alla home page di Splinder, convinto che mi sarei stancato in pochi giorni, se non ore...
    Dopo una settimana, come dissi
    QUI, stavo già cambiando idea...
  2. quando? da quanto tempo gestisci un blog?
    R: dal 4 Dicembre 2006
  3. quante volte? (sì, lo so che sembro un po' il prete nel confessionale... ma un po' di confessione in questo gioco ci sta) quante piattaforme hai cambiate? quali? perché? quali ti sono piaciute di più e quali meno?
    R: due, su Splinder fino alla chiusura, poi su Blogspot; per riprendere ho provato anche Wordpress, iobloggo e logga.me, nessuna mi è piaciuta in particolar modo e ho scelto il male minore; mi piaceva Splinder per la sua community piuttosto chiusa e unita, il che aveva però i suoi svantaggi, e ne parlerò più avanti;
  4. più delusioni o piacevoli sorprese nella tua vita in blogosfera?
    R: in assoluto inaspettate e piacevoli sorprese; me ne sono accorto subito – come dico
    QUI e QUI, ad esempio – e come l'esperienza successiva e anche recente mi ha confermato;
  5. quante volte hai pensato di rinunciare e hai cambiata idea?
    R
    : una sola: devo ammetterlo, presi la chiusura di Splinder come una sorta di tradimento; la sua comunità chiusa che rendeva difficoltoso il colloquio con gli utenti di altre piattaforme – e per converso molto stretto e immediato quello con gli altri splinderiani, con le liste amici (che rimpiango ancora adesso), i PVT, le lucine che segnalavano la presenza in rete, la lista commenti propri (anche questa mi manca) – mi fece pensare che, spostandomi/ci su altre piattaforme, il gruppo si sarebbe inevitabilmente frammentato e disperso in mille rivoli.
    Non era vero, le piattaforme su cui siamo ora sono di gran lunga più aperte e comunicano tra loro con facilità, e in definitiva mi sono un po' pentito per aver aspettato tanto; e ringrazio pubblicamente chi (Elisa, Katherine, Violetta, Linda, Titti... e se dimentico qualcuno mi perdoni) mi ha affettuosamente incoraggiato a riprendere;
  6. descrivi il perché del tuo nickname (e del tuo avatar, se vuoi);
    R: il mio nickname in rete è stato per lungo tempo Lion (ancora oggi, su Messenger, per salutare ho un leoncino che agita la zampina invece del solito Ciao animato che usano tutti); me lo appioppò una collaboratrice di quando dirigevo una rivista, che a sua volta si firmava The Tiger, e mi piacque. Splinder fu il primo sito a rifiutarmelo, in quella famosa sera; non volli interrompere la registrazione e dovetti inventarmi lipperlì qualcosa di nuovo; il primo che funzionò fu Cosimopiovasco, suggeritomi dal fatto di aver appena terminato di scrivere un articolo sui personaggi di Italo Calvino. In seguito mi ci affezionai talmente da usarlo in continuazione; oggi sono Cosimo per tutti, in rete.
    L'avatar è un'illustrazione che trovai in rete tempo prima e che avevo già usata per una rubrica della rivista di cui sopra; mi piaceva il suo simbolismo delle pagine del libro che volano a comunicare emozioni nel mondo. Dopo che (abbastanza presto) il mio anonimato di blogger si dissolse, avrei anche potuto usare una foto (e qui su Blogspot c'è, nel Chi sono), ma a quel segno distintivo non ho più voluto rinunciare.
  7. hai mai cancellato un commento o bloccato un utente? se sì, perché?
    R: commenti ne ho cancellati tanti, ma sempre e solo per cause tecniche, e non ho mai bloccato nessuno; assertore come sono del vietato vietare, accetto di ricorrere alla violenza (e cancellare  – o anche solo moderare – i commenti per me È una forma di violenza, o comunque di censura) solo in casi estremi di legittima difesa, e per fortuna non ne ho avuto bisogno. La mia massima forma di intolleranza la potete leggere
    QUI.
  8. scrivi più per te stesso/a o per gli altri?
    R: se scrivessi per me stesso terrei un diario chiuso a chiave e non lo farei leggere a nessuno, cosa che non ho mai fatta neppure nell'infanzia. Domanda superflua nel mio caso, ma l'ho inserita notando quanto sia vivo in rete il dibattito su questo argomento;
  9. che cosa pensi dei blog privati?
    R: di primo acchito anch'io li considero ossimori, contraddizioni in termini... ma al solito non mi sento di generalizzare: il mio blog ha fatto in fretta a diventare completamente pubblico, rivelando nome data di nascita foto biografie interviste e quant'altro su di me... Ma ne conosco alcuni per i quali la segretezza e l'anonimato sono questioni vitali; e non solo in senso metaforico, i proprietari rischierebbero grosso ad essere identificati; ed è praticamente impossibile scrivere di se stessi in assoluta sincerità senza lasciare qualche traccia che potrebbe permettere l'identificazione... Quindi in casi estremi li considero una triste necessità... anche se sinceramente sospetto che al 90% si tratti di un atteggiamento... sì, insomma, un tirarsela un po'...
  10. racconta un aneddoto (o due, o tre...) particolarmente significativo della tua vita in blogosfera.
    R: Il primo (entrambi sono legati al mio nick): incontrai tempo fa una blogger che aveva intitolato il suo blog La moglie di Cosimo. Commentai ovviamente con qualcosa come "Oh, bella! Mica lo sapevo di avere una moglie su Splinder!". Ne nacque una simpatica corrispondenza su entrambi i blog che si guastò tuttavia quasi subito: caratteri spigolosi entrambi, non gradimmo alcune osservazioni fatte dall'altro/a e polemizzammo un po'... In modo comunque garbato, intendiamoci, senza ban né cancellazione di commenti, ma la reciproca frequentazione si affievolì fino a cessare del tutto.
    Il secondo: in una delle tante catene (di cui questa potrebbe anche essere un esempio) si chiedeva di rispondere a domande personali citando titoli di libri. Un tale rispose alla prima domanda "Sei maschio o femmina?" con "Il barone rampante". Intervenni sul suo blog con aria fintamente arrabbiata invocando il copyright e diffidandolo dall'usare quel titolo che spettava solo a me. Anche in questo caso ne venne fuori uno scambio di battute che fece sorridere pure gli altri visitatori. Ma anche con lui non s'instaurò mai una vera amicizia, ci perdemmo di vista abbastanza in fretta.
Un saluto e un sorriso dal vostro
Cosimo Piovasco di Rondò

sabato 18 agosto 2012

Interviste – Perché un blog

Dedicato a Sheryl


Per sua stessa ammissione, non è stata Sheryl a inventare questo progetto; ma io l'ho scovato su un suo POST, e i miei debiti sono uso riconoscerli.
Come mia abitudine, cambio le regole a mio piacimento, e dunque:
  • il gioco consiste nell'intervistare una serie di blogger amici;
  • chi è intervistato deve rispondere alle domande con un commento sul post dell'intervistatore;
  • è facoltativo proseguire il gioco, cioè ripubblicare le risposte sul proprio blog e, se gradito, coinvolgere altri amici (mi piacerebbe che chi lo fa lasciasse traccia nel commento, per permettere a tutti di andare a leggere);
  • è ugualmente facoltativo modificare le domande, cancellarne alcune e aggiungerne di nuove;
  • le domande sono le stesse per tutti, sono evitati riferimenti diretti ad un blog in particolare (almeno nella mia versione), quindi devono essere il più possibile universali.


Ed ecco le dieci domande che rivolgo ai miei amici (le domande sono in grassetto, le aggiunte in carattere normale sono esplicative):
  1. perché un blog? quali sono state le tue motivazioni nell'affacciarti per la prima volta in blogosfera?
  2. quando? da quanto tempo gestisci un blog?
  3. quante volte? (sì, lo so che sembro un po' il prete nel confessionale... ma un po' di confessione in questo gioco ci sta) quante piattaforme hai cambiate? quali? perché? quali ti sono piaciute di più e quali meno?
  4. più delusioni o piacevoli sorprese nella tua vita in blogosfera?
  5. quante volte hai pensato di rinunciare e hai cambiata idea?
  6. descrivi il perché del tuo nickname (e del tuo avatar, se vuoi);
  7. hai mai cancellato un commento o bloccato un utente? se sì, perché?
  8. scrivi più per te stesso/a o per gli altri?
  9. che cosa pensi dei blog privati?
  10. racconta un aneddoto (o due, o tre...) particolarmente significativo della tua vita in blogosfera.
Non nomino nessuno direttamente, ma spedirò un invito circolare a tutti gli amici in rete; se dimentico qualcuno mi perdoni e, se gli piace, partecipi; allo stesso modo può partecipare chi passasse da qui per caso.
Ovviamente non do il buon esempio: troverei perlomeno ridicolo intervistare me stesso. Ma se qualcuno è curioso può tranquillamente rimbalzarmi il gioco, con le stesse domande o con altre, non mi sottrarrò.

Un saluto dal vostro
Cosimo Piovasco di Rondò

mercoledì 15 agosto 2012

Revival XXXIV

Scherza coi fanti e lascia stare i Santi, si diceva una volta; nel video qui sotto i mitici Gufi dimostrano come sia possibile scherzare anche coi santi, quando non vengano meno il buon gusto e il rispetto. Ciò non impedì al quartetto milanese (come ricorda Nanni Svampa nell'introduzione) di beccarsi, nel clima bigotto e benpensante degli anni '60, una denuncia per vilipendio della religione, finita ovviamente nel nulla.
Sulla canzone Sant'Antonio allu desertu ho trovate, in rete, poche e frammentarie notizie: tutti sono concordi nel considerarla un canto popolare anonimo, chi dice abruzzese e chi pugliese; qualcuno addirittura napoletano, ma evidentemente sbagliando di grosso. Di sicuro è un'opera recente, non anteriore al secolo scorso, visto che vi si parla di farsi la permanente ai capelli... E mi sembra perlomeno strano che di una canzone del XX secolo non si conosca l'autore.
Merita forse ricordare che il Sant'Antonio di cui si parla non è, come alcuni erroneamente credono (ho trovato addirittura su un blog un vecchio post con la canzone riportata anche qui, pubblicato il 13 giugno in occasione della ricorrenza – sic!), il santo portoghese che svolse la sua opera a Padova nel XIII secolo, praticamente coetaneo di Francesco d'Assisi e festeggiato, per l'appunto, il 13 giugno; si tratta bensì di Sant'Antonio Abate, di quasi un millennio precedente, che visse da anacoreta nel deserto della Tebaide attorno al IV secolo e che – secondo la tradizione – fu per tutta la vita assediato e tormentato dal demonio (tema scherzosamente ripreso dalla canzone), del quale si celebra la ricorrenza il 17 gennaio.
Santo chiamato per l'appunto, nel linguaggio popopare, Sant'Antonio del deserto o anche Sant'Antonio del fuoco (da lui proviene il nome fuoco di Sant'Antonio per la malattia herpes zoster). In Lombardia lo chiamano anche Sant'Antoni del purcel sia per l'iconografia che lo raffigura spesso in compagnia di un maiale e che ne fa il protettore dei raccolti e degli animali domestici, sia perché la sua festa cade nel periodo tradizionalmente dedicato alla macellazione dei maiali.
Per concludere, quella che ho scelta non è la versione originale dei Gufi, ma una loro esibizione televisiva di una quindicina d'anni posteriore, in occasione di una reunion che li vide tornare a collaborare per un breve periodo (i Gufi si sciolsero ufficialmente nel 1969); ho trovato irresistibili le smorfie di Gianni Magni, lo scarno accompagnamento alla sola chitarra di Lino Patruno, con Magni e Brivio che fanno gli strumenti con la voce...


Buon ascolto dal vostro
Cosimo Piovasco di Rondò

sabato 11 agosto 2012

Poesia d'autore

I' cominciai: – Poeta, volentieri
parlerei a que’ duo che insieme vanno
e paiono sì al vento esser leggieri.

Ed egli a me: – Vedrai quando saranno
più presso a noi; e tu allor gli prega
per quell’amor che i mena, e quei verranno.

Sì tosto come il vento a noi li piega,
mossi la voce: – O anime affannate,
venite a noi parlar, s’altri nol niega.

Quali colombe dal disio chiamate,
con l’ali alzate e ferme, al dolce nido
vengon per l’aer dal voler portate;

cotali uscir dalla schiera ov’è Dido,
a noi venendo per l’aer maligno
sì forte fu l’affettuoso grido.

– O animal grazioso e benigno,
che visitando vai per l’aer perso
noi che tignemmo il mondo di sanguigno,

se fosse amico il re dell’universo,
noi pregheremmo lui della tua pace,
poiché hai pietà del nostro mal perverso.

Di quel che udire e che parlar ti piace
noi udiremo e parleremo a vui,
mentre che il vento, come fa, si tace.

Siede la terra, dove nata fui,
sulla marina dove il Po discende
per aver pace co’ seguaci sui.

Amor, che a cor gentil ratto s’apprende,
prese costui della bella persona
che mi fu tolta, e il modo ancor m’offende.

Amor, che a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte
che, come vedi, ancor non m’abbandona.

Amor condusse noi ad una morte;
Caina attende chi vita ci spense.
Queste parole da lor ci fur porte.

Da che io intesi quelle anime offense,
chinai il viso, e tanto ‘l tenni basso,
finché il poeta mi disse: – Che pense?

Quando risposi, cominciai: – O lasso,
quanti dolci pensier, quanto disio
menò costoro al doloroso passo.

Poi mi rivolsi a loro, e parlai io,
e cominciai: – Francesca, i tuoi martiri
a lagrimar mi fanno tristo e pio.

Ma dimmi: al tempo de’ dolci sospiri,
a che e come concedette amore,
che conosceste i dubbiosi desiri?

Ed ella a me:– Nessun maggior dolore,
che ricordarsi del tempo felice
nella miseria; e ciò sa il tuo dottore.

Ma se a conoscer la prima radice
del nostro amor tu hai cotanto affetto,
farò come colui che piange e dice.

Noi leggevamo un giorno per diletto
di Lancillotto, e come amor lo strinse:
soli eravamo e senz’alcun sospetto.

Per più fiate gli occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso:
ma solo un punto fu quel che ci vinse.

Quando leggemmo il disiato riso
esser baciato da cotanto amante,
costui, che mai da me non fia diviso,

la bocca mi baciò, tutto tremante.
Galeotto fu il libro e chi lo scrisse;
quel giorno più non vi leggemmo avante.

Mentre che l’uno spirto questo disse,
l’altro piangeva sì che di pietade
io venni men così com’io morisse;

e caddi, come corpo morto cade.

(Inferno, V, 73/142)



Buon ascolto dal vostro
Cosimo Piovasco di Rondò

giovedì 9 agosto 2012

Nina, oh Nina! (Coppie tragiche V)

Nina Giustiniani
Ricorre oggi l'anniversario della nascita di un'importante figura del risorgimento italiano, forse non da tutti conosciuta al pari di altri protagonisti del periodo (eh, sì, anche la storia d'Italia è un filino maschilista, tocca ammetterlo).
La marchesa Anna Schiaffino Giustiniani, detta Nina, nacque a Parigi il 9 Agosto 1807 dal barone Giuseppe Schiaffino di Recco; andò sposa a diciannove anni al marchese Stefano Giustiniani, dal quale ebbe tre figli.
Sono note le sue simpatie per i movimenti patriottici dell'epoca, in particolare per la Giovine Italia di Giuseppe Mazzini. Il suo salotto genovese fu frequentato da figure di spicco del risorgimento; vi si tennero attività di propaganda e di raccolta fondi a favore dei rivoluzionari italiani; all'interno di esso, nel 1830, Nina Giustiniani conobbe (e se ne innamorò) il futuro artefice, anni dopo, della definitiva unità d'Italia, Camillo Benso conte di Cavour, a quei tempi ventenne ufficiale del genio militare.
Cavour, figura conosciutissima del risorgimento, ebbe rapporti ambigui con varie donne, sempre tra il sentimentale e il politico, sui quali la storia ufficiale generalmente sorvola; in un precedente post già parlai di Virginia Oldoini, contessa di Castiglione, detta la vulva d'oro del risorgimento italiano, forse amante del conte, forse solamente suo strumento nel favorire, seducendo l'imperatore Napoleone III, l'alleanza tra Francia e Regno di Sardegna.
Cavour a vent'anni
Nina Giustiniani (sembra sia stato proprio Cavour ad attribuirle per primo il diminutivo col quale passerà alla storia) era già morta da tempo quando il conte tesseva i suoi intrighi con Virginia; ma la relazione tra Nina e Camillo appare di gran lunga più sincera e disinteressata dell'altra.
Di sicuro lo fu da parte di lei: il suo copioso epistolario (più di centocinquanta lettere in un solo anno, e a quei tempi non c'era la posta elettronica, e neppure quella prioritaria) testimonia un amore appassionato ed esclusivo, che si tinge di disperazione quando sente il suo amante allontanarsi da lei: Cavour, che pure in certi periodi corrispose con passione, era troppo volubile e troppo preso dalla politica, dal gioco e dalla vita mondana, per ricambiarla con pari intensità.
L'ultimo incontro tra i due avvenne a Voltri nell'autunno del 1834; da allora Nina continuerà a scrivere lettere appassionate a Camillo (alcune addirittura in genovese) ricevendone risposte sempre più tiepide e sprofondando sempre più nella depressione e nell'instabilità mentale.
Il 30 Aprile 1841, all'età di trentatré anni e dopo altri due tentativi di suicidio andati a vuoto, Nina Giustiniani trovò alfine la sospirata morte gettandosi dalla finestra di palazzo Lercari a Genova, allora sua residenza. Nella sua ultima lettera a Cavour scrisse:
“La donna che ti amava è morta. Ella non era bella, aveva sofferto troppo. Quel che le mancava lo sapeva meglio di te. È morta, dico, e in questo dominio della morte ha incontrato antiche rivali. Se essa ha ceduto loro la palma della bellezza nel mondo ove i sensi vogliono essere sedotti, qui ella le supera tutte: nessuna ti ha amato come lei. Nessuna!”.

Un saluto dal vostro
Cosimo Piovasco di Rondò

lunedì 6 agosto 2012

Gli oggetti del tempo andato

Dedicato a Elisa

È stato un post di Elisa (leggerevolare) a proposito di un libro scritto da Francesco Guccini, a convincermi a ripubblicare questo mio post, comparso su Splinder circa quattro anni fa.

Abituati come siamo a convivere con personal computer, connessioni wireless, auricolari bluetooth e altre diavolerie del genere, quasi ci sorprendiamo nel rivedere oggetti che fino a qualche decennio fa erano d'uso comune e che oggi possono sembrare pezzi di antiquariato.
Ve ne presento alcuni che ho avuto modo di vedere in uso nella mia infanzia, sperando di destare un sorriso di nostalgia tra gli amici della mia età, e la curiosità di quelli delle generazioni successive (le foto sono di repertorio, ma ho avuto cura di scegliere gli oggetti più somiglianti a quelli che ho personalmente usato, o visto usare):

Il macinino: ai tempi in cui si era ben lontani dal trovare nei negozi le odierne confezioni ermetiche sottovuoto, il caffè (che si preparava con la classica caffettiera napoletana, prima dell'avvento della rivoluzionaria moka express) si comprava in grani in drogheria e lo si macinava a mano: attività generalmente riservata ai ragazzini i quali, ben felici di rendersi utili, si sedevano in un cantuccio, il macinino stretto tra le ginocchia, e giravano compunti la manovella, aspirando voluttuosamente l'aroma sprigionato dai chicchi di caffè...

Il tosta-caffè: la massiccia emigrazione verso il nuovo continente, avvenuta nel periodo tra le due guerre, ha fatto sì che quasi tutte le famiglie avessero qualche parente americano (i miei erano per lo più in Argentina e in California), che spesso portava o inviava in Italia sacchetti di caffè grezzo, che veniva tostato in casa, con l'uso di un cilindro posto su un supporto ed esposto alla fiamma della carbonella accesa (ma anche, con un supporto semplificato, delle prime cucine a gas). Ne esisteva anche un tipo verticale (una sorta di padella chiusa con una maniglia per agitare il caffè all'interno), al quale si riferisce l'immagine qui accanto.
La bombilla: un altro prodotto esotico che i parenti sudamericani ci fecero conoscere e apprezzare fu il mate (yerba mate in spagnolo), un infuso simile al the che si prepara in un contenitore fatto con una piccola zucca svuotata e si beve con la bombilla, una cannuccia metallica che porta all'estremità un filtro bucherellato per evitare di aspirare, assieme alla bevanda, le foglioline. Sono famose alcune foto di Ernesto Che Guevara che sorbisce il mate con la bombilla nelle foreste boliviane, durante le pause della sua attività di guerrigliero...
L'arcolaio (o dipanatoio): le nostre madri e le nostre nonne erano in genere abilissime nel lavorare a maglia, e confezionavano in continuazione maglioni e sciarpe per tutta la famiglia: la lana, comprata in matasse, doveva essere dipanata e riavvolta in forma di gomitolo per la successiva lavorazione.
La più rudimentale forma di dipanatore erano... i polsi delle mani!
Generalmente, al solito, era un bambino a tener tesa tra le braccia la matassa, mentre la madre avvolgeva rapidamente il gomitolo... Ma di gran lunga più comodo era l'uso di un arcolaio a pantografo, solitamente in legno, che sorreggeva la matassa durante lo svolgimento.
Lo scaldaletto: nelle case di un tempo, dove l'unica stanza riscaldata (dal camino o dalla stufa a legna) era la cucina, infilarsi in un letto gelido era un'esperienza – è il caso di dirlo! – da brivido. I più antichi scaldaletti erano piccoli bracieri chiusi dove si metteva carbonella, o sansa d'olive accesa, e che popolarmente erano chiamati preti; quelli che ho avuto modo di provare nell'infanzia erano bottiglie di rame con un tappo a vite, che si riempivano d'acqua bollente, si avvolgevano in un panno e s'infilavano tra le lenzuola per scaldarsi almeno i piedi...
Il lume a petrolio e la lampada ad acetilene: in molti paesi di montagna, abitati fino agli anni sessanta, la corrente elettrica non è mai giunta. Per farsi luce di notte si usavano i lumi a petrolio o le più efficienti lampade ad acetilene: si comprava in drogheria il carburo di calcio, un minerale biancastro dall'odore acre che a contatto con l'acqua sprigiona acetilene, un gas combustibile che brucia con una fiamma bianca e luminosissima; il carburo va posto nel recipiente inferiore, mentre quello superiore, avvitato su di esso, è riempito d'acqua, che tramite una valvola a spillo, comandata da un regolatore a vite, vien fatta gocciolare sul carburo; l'acetilene che si forma fuoriesce tramite un tubicino che termina in un ugello calibrato, e si accende con un fiammifero; l'intensità della fiamma viene regolata dall'apertura della valvolina, e ovviamente la lampada si spegne serrando a fondo il regolatore.
Il mortaio: questo è un attrezzo che molti amatori della gastronomia tradizionale usano ancora... In Liguria era d'obbligo per la preparazione del pesto: le foglioline di basilico erano poste nel mortaio di marmo con aglio e sale grosso, e laboriosamente frantumate col pestello di legno... ma oggi è per lo più un pezzo d'arredamento, che molti usano come soprammobile o portafiori... e il pesto lo si fa nel frullatore elettrico...
L'incudine da calzolaio: prima di buttare le scarpe, nelle frugali famiglie di un tempo, le si risuolavano più volte, sicché tra gli attrezzi di casa trovava normalmente posto anche un piccolo corredo da calzolaio: lesina, martello, chiodi e bullette, fogli di cuoio, incudine... quella che ricordo di aver visto usare a mio padre era simile a questa...
Il ferro da stiro: i modelli più arcaici avevano un contenitore dove si metteva brace di carbone accesa, e non ricordo di averli mai visti usare da nessun parente... mentre erano ancora in uso quelli di ghisa massiccia da scaldare sulla stufa: si usavano normalmente in coppia, o a gruppi di tre; il più caldo lo si usava per stirare mentre gli altri stavano posati sulla stufa accesa; quando il calore scemava lo si sostituiva con uno più caldo e così via, a rotazione...
Il pitale: eh, sì, c'era anche questo nelle gelide case di una volta, dove di solito le latrine erano all'esterno dell'abitazione, in un angolo del cortile o di un terrazzino... e andare a far pipì in pieno inverno poteva significare dover spalare la neve per un tratto di qualche metro... cosicché tutti custodivano il proprio vasino da notte sotto il letto...
Al giorno d'oggi in casa si trovano solo i vasini in plastica dei bimbi... e quello del nonno magari su un davanzale, ridotto a vaso da fiori...

Un saluto e un sorriso dal vostro 
Cosimo Piovasco di Rondò

venerdì 3 agosto 2012

Cineforum – Piccoli e grandi film d'ogni tempo (IV)

(Nota a margine (ne farò parecchie in questi primi post, per soddisfare le perplessità di chi non mi conosca): poiché questo blog è l'ideale continuazione del precedente, la numerazione delle categorie che la possedevano prosegue anziché ripartire da uno; non stupitevi dunque di questa quarta scheda film).



Il pranzo di Babette (Babettes gæstebud, Danimarca, 1987, col, 102 min)
Regia: Gabriel Axel
Interpreti: Stéphane Audran, Birgitte Federspiel, Bodil Kjer, Jarl Kulle, Jean-Philippe Lafont, Bibi Andersson
Soggetto: Isak Dinesen (Karen Blixen), dall'omonimo racconto
Sceneggiatura: Gabriel Axel
Fotografia: Henning Kristiansen
Musiche: Per Nørgaard




In paradiso, Babette, voi sarete la grande artista
che Dio ha voluto foste.
Oh, come incanterete gli angeli!

La trama: In un villaggio danese di fine ottocento le belle figlie (Federspiel e Kjer) del rigido e un po' dispotico decano protestante, che le ha battezzate Martina e Filippa in onore di Martin Lutero e di Filippo Melantone, dedicano tutta la vita, anche e soprattuto dopo la morte del padre, alla cura spirituale della piccola comunità, rinunciando ad ogni ambizione terrena e anche all'amore, l'una per lo scapestrato ufficiale di cavalleria Lorens Lowenhielm (Kulle), l'altra per il raffinato cantante lirico francese Achille Papin (Lafont).
Anni dopo la morte del decano, bussa alla loro porta una parigina, Babette Hersant (Audran), ex communard perseguitata dalla reazione, che reca una lettera di raccomandazione di Achille Papin; le due sorelle l'accolgono al loro servizio, trattandola più come una della famiglia che come una domestica, benché un po' turbate dal dover dividere il tetto con una papista (come i protestanti rigorosi chiamano i cattolici).
Babette si fa benvolere in breve da tutti gli abitanti del villaggio; dopo aver vinta una grossa somma ad una lotteria francese alla quale gioca da anni, chiede alle due sorelle di poter organizzare a sue spese un vero pranzo francese per festeggiare, come d'uso ogni anno, l'anniversario della nascita del decano. I preparativi del pranzo lasciano sbigottiti e scandalizzati i paesani, che vedono giungere carriole cariche di tartarughe vive e quaglie in gabbia, e turbano i sonni delle due sorelle, già addolorate nell'assistere ai continui litigi dei loro protetti, che non riescono a tenere a freno con la stessa autorità del padre, e timorose di accogliere le tentazioni del demonio in casa propria con quei cibi inusitati e peccaminosi.
Al pranzo, i perplessi commensali scioglieranno ben presto i loro dubbi e si lasceranno contagiare dalle delizie esotiche cucinate da Babette e dalle abbondanti libagioni di raffinati vini francesi che le accompagnano, pur non riuscendo a comprenderle del tutto; solo Lorens Lowenhielm, ormai generale, tornato in visita al villaggio e a sua volta ospite alla cena, riconoscerà, sbigottito, nella mano dell'invisibile cuoca quella di uno dei più grandi chef francesi, da lui conosciuto ed apprezzato a Parigi.
E anche le sorelle grideranno al miracolo vedendo, alla fine del pranzo, il loro piccolo gregge abbracciarsi in un impeto di affetto che sembrava ormai scomparso da tempo.

Il commento: Un regista poco conosciuto firma un autentico gioiello di sensibilità e di poesia; con stupefacente precisione e modestia, Gabriel Axel ricalca la sceneggiatura, quasi parola per parola, sul racconto originale di Karen Blixen, giungendo al punto di ricorrere ad una voce narrante fuori campo che legge lunghi estratti dal racconto stesso.
Il risultato, lungi dall'essere stucchevole o artificioso come ci si potrebbe aspettare, conduce per mano – grazie al tocco lieve e rispettoso, ma al tempo stesso sicuro, del regista – lo spettatore in una narrazione dove tutto è perfetto: dalla fotografia, i cui colori tenui e sfumati richiamano quadri d'autore e rivestono di un fascino sottile i paesaggi danesi, alla recitazione, sempre sommessa e sottotono, dei bravissimi interpreti, che incorniciano a dovere il risalto della protagonista.
Indimenticabili alcuni momenti del film: il duetto del “Don Giovanni” tra Achille Papin e una delle sorelle, carico di una grazia estrema e percorso da sottili e trattenuti brividi di erotismo, tutto recitato in francese (e onore, una volta tanto, all'editore italiano che ha evitato un inopportuno doppiaggio!); la lunga sequenza del pranzo, coi commensali dapprima stupiti, poi estasiati dalle prelibatezze loro cucinate, e col generale Lowenhielm che sospetta di aver perso il senno nel riconoscere, nello sperduto e frugale villaggio danese, vini e cibi della grande cucina francese, e che alla fine improvvisa un commosso discorso sulla grazia divina che i commensali capiranno poco ma apprezzeranno molto.
Impossibile da descrivere, invece, il perfetto equilibrio tra malinconia e sorriso, tra commozione ed umorismo, che pervade tutto il film e che regista e interpreti riescono a rendere con singolare efficacia.
Meritatissimo l'Oscar per il miglior film straniero ottenuto nel 1988, così come la menzione speciale della giuria al Festival di Cannes 1987; per la bravissima Stéphane Audran, solo il Premio Robert (un riconoscimento dell'accademia cinematografica danese istituito nel 1984) per la migliore attrice protagonista nel 1988.

Curiosità: Isak Dinesen è sì uno pseudonimo utilizzato da Karen Blixen, ma fa riferimento al suo vero cognome: la scrittrice danese si chiamava infatti Karen Christentze Dinesen, baronessa von Blixen-Finecke; il titolo nobiliare le venne dal marito (e cugino) Bror von Blixen-Finecke, che sposò nel 1914 e dal quale divorziò nel 1921.

Un saluto dal vostro
Cosimo Piovasco di Rondò